« C'era una volta...
- Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori.
No ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno. »
Analogamente a Collodi potrei dire “C’era una volta una costruzione… Un Palazzo di mattoni! Macché, infinitesimamente più piccola: un pozzo.”
Un pozzo incontrato in un angolo di campagna marchigiana, uno come tanti nelle aie delle case rurali che costellavano le nostre colline quando le terre dei signori erano tenute a mezzadria da migliaia di famiglie contadine, una ogni, sei, sette, dieci ettari.
Sarà perché provengo da una famiglia di “pozzaroli” e rabdomanti e per questo mi sono familiari i racconti dello scavo di un pozzo con la trivella a mano e di quanto fosse duro e pericoloso costruirli con la sola forza delle braccia, questa piccola opera d’ingegneria popolare che resiste al tempo mi pare un piccolo capolavoro.
Non una costruzione complessa, ma semplice direi; nessun fine rivestimento di pietra scolpita, nessuna colonna con capitelli come nei pozzi dei chiostri rinascimentali. Un muro perfettamente circolare a due teste coronato in sommità da mattoni posti di coltello e, a segnarne il diametro, un trilite di due robuste colonne in laterizi a tre teste e sovrastante architrave in legno. Di un’epoca indefinita ma presumibilmente risalente ai primi del 1900, il pozzo ancora oggi assolve al suo ruolo.
Non vicinissimo alla casa rurale che serviva ma non distante dalla polverosa strada pubblica così che se i viandanti avessero avuto bisogno di una sosta per dissetarsi, potevano accomodarsi.
Dove fare il pozzo però, e a quanto scavare semmai, lo decideva il pozzarolo rabdomante con sentenza inappellabile. La sua ricerca come un antico rituale. Ampi giri intorno al luogo prescelto con la forcola di legno d’olmo abilmente tenuta in mano; l’attesa che la bacchetta s’eccitasse al sentire il richiamo dell’acqua nascosta, oppure al contrario a rivelare la triste cilecca per l’inesistenza della falda acquifera.
L’operazione di andare a “coglier l’acqua della novella piova” cantata dal Leopardi, identica dai tempi dei romani al momento in cui giunge in sito l’acquedotto pubblico. In duemila anni corda, carrucola, mastello di legno e poi brocca di terracotta in testa.
La fatica di trivellare a mani, poi subito a murare i primi metri delle pareti del foro scavato, e il calarsi giù per dargli con vanga e piccone, riempire le caldarelle che svuotavano i compagni di fuori. E murare ancora un altro settore circolare, ad evitare crolli improvvisi, e scavare di nuovo per metri e metri in un cilindro di un metro e mezzo di diametro.
Ecco che mi fa pensare un umile pozzo in un piccolo angolo di campagna; una testimonianza del valore di un bene come l’acqua, assoluto e così “utile et humile et pretiosa et casta” per i nostri contadini, come ai tempi di Francesco di Assisi.
Stefano Simoncini
Foto dell’autore e tratte da R. Orsetti - La civiltà contadina delle Marche del XX secolo